Scuffi Marcello


Scuffi Marcello

Tizzana, 1948.

Uno spirito antico, una straordinaria autenticità e un forte legame che la pittura dichiara nei confronti della sua terra. Questa è l’arte di Marcello Scuffi, autore toscano espressione del neo-italianismo moderno, come lo ha definito Vittorio Sgarbi, richiamando linguaggi primitivisti del nostro rappel à l’ordre, come Carrà, Rosai, Morandi, Casorati, nelle cui opere il soggetto si sposta dai paesaggi alle nature morte. Da questi artisti tuttavia Scuffi si discosta abbandonando le esasperazioni e spogliando l’arte di orpelli inutili. Autodidatta, dipinge dal 1970; nelle sue tele, così come negli affreschi e negli acquerelli si riconosce paradossalmente una mano immutata nel tempo, seppur le opere dei primi anni risultino più luminose e più chiare.

Suo padre, che all’epoca era un sarto piuttosto rinomato, aveva deciso che lui sarebbe diventato prete. Così l’artista, frequentando il liceo in seminario, faceva di necessità virtù: dipingeva cattedrali, oppure ritratti di Gesù, “O anche Garibaldi. L’importante era che il soggetto avesse la barba, perché non sapevo disegnare le bocche”, racconta in un’intervista. Ma negli anni, quella pittura che sembrava fosse solo il passatempo di un ragazzo, diventa una passione. Complice anche la vista del Pino sul mare di Carrà. Lascia il seminario e pur di poter dipingere fa qualsiasi mestiere: impiegato, tessitore, tappezziere. All’inizio degli anni Settanta, finalmente, la pittura diventa la sua professione, riuscendo a vivere di quello, anche se solo per un breve periodo: dopo i primi due anni di entusiasmo, cominciano le difficoltà.

Eppure Marcello Scuffi non si demoralizza. E continua instancabilmente a dipingere, e lo fa senza mai lasciarsi sfiorare dalla tentazione di cedere alle lusinghe della moda. La sua, da sempre, è una pittura senza tempo, erede delle più alte espressioni del Novecento. Basta guardare un olio su tela come Marina (il pontilino), del 1980: il taglio fotografico azzardato - che esclude la chioma dell’albero, quasi tutto il cielo, metà di una porta e un pezzo di barca - è forse l’unica concessione al moderno. Il resto è come una finestra magica dalla quale lo spettatore è invitato a spiare un mondo visto da Carrà, forse anche da Giotto o da Piero della Francesca. Il mare come un immobile specchio turchese, il promontorio liscio e piano, le quinte misteriose della montagna all’orizzonte, e su tutto una patina di nebbia perlacea, opalescente, che dà a quel molo solitario, a quella barca ormeggiata e a quell’albero di cui si vede solo il tronco il sapore del sogno o della nostalgia.

Fino dal 1970 è stato presente in varie collettive e dal 1972 ha all'attivo più di trenta personaliNel 1977 e nel 1981 ha soggiornato a Bruxelles e vi ha a lungo dipinto. Oltre che in Italia, il suo lavoro è conosciuto in Francia, Belgio e Svizzera. Con studi e interventi si sono interessati alla sua pittura sia critici d'arte sia letterati.


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